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La nostra concittadina Maria Pia Di Maio in aula al processo di Meredith Kercher

Segue come inviata a Perugia la triste vicenda di cronaca
19/3/2009 19:21

Perugia - dall’inviata Maria Pia Di Maio - Nonostante il passare del tempo, diciassette mesi ormai, e le reiterate udienze del processo, la morte della studentessa inglese Meredith Kercher è ancora in gran parte avvolta nel mistero.
Ad oggi, infati, non sono stati ancora acquisiti elementi sufficienti per poter ricostruire con precisione la dinamica dell’omicidio. Il destino degli imputati Amanda Knox, coinquilina della Kercher e Raffaele Sollecito, all’epoca dell’omicidio fidanzato di Amanda, è ancora incerto, come incerti sono i tempi di attesa che ci separano dalla conclusione di questa tragedia. Una cosa è certa: la mattina del 2 novembre 2007 il corpo di Meredith viene trovato privo di vita nella sua abitazione presso via della Pergola, una zona praticamente ai piedi dell’Università per Stranieri, grande polo attrattivo dell’ateneo perugino, ma soprattutto principale richiamo per studenti provenienti da tutto il mondo. Tra questi, vi erano pure Meredith e Amanda. Da quel giorno, il”caso Meredith” non ha mai smesso di far parlare di sè. Ha animato l’opinione pubblica, ha generato un senso di timore e di sfiducia verso la città di Perugia,oggettivamente non più e non meno pericolosa di tante altre città e cittadine italiane; ha concentrato l’attenzione di centinaia di giornalisti che, in talune circostanze apparentemente dimentichi del sostrato tragico di questa vicenda, hanno affollato le strade del centro storico di Perugia alla ricerca di risposte. Risposte che, ovviamente, non ci sono state per il semplice fatto che Meredith non è stata vittima di una città pericolosa, né tanto meno preda di una rissa avvenuta per strada. Meredith è stata uccisa nelle mura della sua casa, dentro la sua stanza, da persone che lei conosceva. Il problema allora non è se ed in quale misura una città possa essere pericolosa; non è raccomandare i propri figli di stare attenti quando camminano per strada perché “oggigiorno non si sa mai”. Il problema, se proprio deve essercene unuo, è un altro: capire cosa sta succedendo, in questa società, per portare alla consumazione di stragi di tale portata. Meredith, infatti, nostro malgrado, non è né la prima né tanto meno l’ultima vittima di una società impazzita. Vittime il cui numero continua esponenzialmente a crescere in modo irrefrenabile. Ritornando nel merito specifico del caso perugino, la domanda, semplice e banale, che tutti si pongono è la seguente: chi è il colpevole? Ebbene: il colpevole o, più probabilmente, i colpevoli ci sono, ma ancora non si è giunti a scoprire la loro identità. Le prove, scarse ma sintomatiche e incontrovertibili nella loro vaghezza, ci indirizzano verso i nomi di Amanda e Raffaele. Troppi gli indizi di una loro fattiva presenza sulla scena del delitto, come l’accertata presenza di tracce del dna della Knox e di Meredith sul coltello di Raffaele Sollecito. Troppe, del resto, anche le contraddizioni emerse dalle loro rispettive dichiarazioni, come l’aver tirato in ballo Patrick Lumumba, poi scoperto totalmente estraneo alla vicenda, da parte di Amanda Knox, per ottenere l’impunità, o il fatto che Sollecito abbia sempre detto di aver lavorato con il pc nella notte tra il 1 e il 2 novembre. Affermazione questa assolutamente smentita dagli accertamenti eseguiti dagli esperti i quali avrebbero rilevato che “non c’è stata interazione umana né con il pc né con le reti internet dalle 21 alle 5 e 32”. Dunque la conclusione cui porterebbe la perizia eseguita dalla polizia postale sul pc è che nessuno avrebbe lavorato con il computer di Raffaele Sollecito nella notte tra il 1 e il 2. E’ questo l’ultimo sviluppo della vicenda, reso noto nell’udienza del 14 marzo. Si tornerà in aula il 20 marzo, per il processo davanti alla corte d’assise di Perugia. Per il momento l’omicidio della giovane Meredith rimane un giallo ancora tutto da risolvere.
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